OMELIA di MONSIGNOR GIOVANNI INTINI Alle esequie di mons. Franco Uricchio

16-03-2019

Il lungo pellegrinaggio terreno di don Franco è approdato sulle rive dell’eternità.  Dobbiamo imparare a dire così, dobbiamo imparare a leggere l’esperienza dolorosa e triste della morte come il passaggio da questo pellegrinaggio terreno, all’eternità. È stato un viaggio lungo quello di Don Franco: è nato il 3 marzo del 1924, aveva studiato e si era formato nel Seminario di Salerno, era stato ordinato presbitero il 10 agosto del 1947 dal Venerabile monsignor delle Nocche a Salandra, perché era originario di Salandra; è stato parroco della Madonna dei Lombardi, a Tricarico, dal 1950 al 1960; canonico penitenziere; parroco della parrocchia Sant’Antonio di Padova, questa parrocchia, dal 1986 al 1999; amministratore della parrocchia Madonna della Pace di Calle; rettore del Santuario della Madonna di Fonti; cappellano dell’ospedale e presidente del Capitolo Cattedrale, dal 2007 fino al 2008. Queste possono sembrare delle semplici tappe ma queste tappe sono state vissute da don Franco nella responsabilità del cammino quotidiano della fede. Dalla Parola di Dio che abbiamo ascoltato, mi sembra che in questa circostanza ci venga offerta una certezza, una beatitudine e un programma di vita. Innanzi tutto, la certezza di Giobbe; nonostante le lotte, la sofferenza, Giobbe ha una certezza: il Dio Redentore è vivo. Perciò lui non ha sofferto per rimanere fedele a un morto, a un idolo, a un ideale, a un’idea; ha affrontato la sofferenza sentendo a suo fianco un Dio vivo che si ergerà sulla morte e i suoi occhi lo vedranno. Lo vedranno, lo contempleranno non da straniero, non da lontano ma così come egli è. Questa è stata anche la certezza in cui si è radicata l’esistenza di don Franco come cristiano e come presbitero. Questa sera, celebrando questa eucaristia pasquale per don Franco, noi ci chiediamo: “È questa la certezza della nostra vita? Siamo certi, noi, di vivere per la sequela di un vivente? Siamo certi che il nostro Redentore è vivo, che si ergerà sulle polveri delle nostre disgrazie, delle nostre difficoltà e delle nostre lotte quotidiane e lo vedremo?”. Perché, se non abbiamo questa certezza, se non abbiamo la certezza che il nostro Dio è il Dio vivente, se non abbiamo la certezza che Cristo è risorto, lo dice San Paolo, langue la nostra fede e noi siamo le persone più infelici di questo mondo.  Questa certezza è accompagnata da una beatitudine, la beatitudine del credente: beati i morti che muoiono nel Signore, riposeranno dalle loro fatiche e le loro opere li seguono. In questo versetto, l’Apocalisse ci chiede di leggere la nostra vita alla luce dei sette giorni della creazione. Dio ha creato il mondo in sette giorni: sei giorni di lavoro e il settimo si è riposato; sei giorni per operare ma il settimo giorno ha preso le distanze dal creato, l’ha contemplato, si è quasi distaccato dalle cose create per vivere la necessaria e gioiosa libertà dalle cose create.  Questo diventa per noi il paradigma della nostra vita. Che cos’è la nostra vita? È un’opera creativa; la nostra vita è ben rappresentata dai sette giorni della creazione. Dio ci concede di poter collaborare alla creazione: sei giorni per lavorare, e don Franco i suoi sei giorni li ha vissuti fino alla fine, li ha vissuti fino in fondo; ma il settimo giorno è il giorno del riposo, inizia adesso il giorno del riposo di don Franco. Il giorno del riposo, per noi credenti in generale e per noi presbiteri a maggior ragione, non inizia quando giuridicamente ci  tiriamo fuori dalle responsabilità attive perché le forze non ci danno più la possibilità di essere elastici e scattanti. Il riposo per noi inizia quando entriamo nel riposo di Dio per condividere in eterno la relazione d’amore della Trinità. A questo riposo ci prepariamo quando impariamo a prendere il giusto distacco da quello che il Signore ci ha concesso di operare e guardiamo tutto in un’altra ottica, con occhi diversi e ci accorgiamo che l’opera creativa che abbiamo potuto realizzare è una cosa bella ma è opera di Dio in noi e per questo lodiamo il Signore perché continua la sua opera creativa attraverso noi poveri uomini. E da ultimo la Parola di Dio ci ha offerto un programma di vita: il discepolo vive nella logica del chicco di grano. Se noi non accettiamo la logica del chicco di grano, non accettiamo il senso profondo della nostra esistenza. Se alla radice della nostra vita non c’è la decisione di diventare chicco di grano caduto in terra che muore, la nostra vita rischia l’insignificanza e la mancanza di senso. Il chicco di grano c’insegna  a  consumarci  nella vita, non a consumare la vita. C’è una differenza profonda,  oggi, noi siamo più propensi a consumarci la vita; vogliamo fare tante cose perché vogliamo giocarcela fino in fondo, vogliamo godercela,  non vogliamo perdere neanche un instante della vita, è come se la vita fosse un buon bicchiere di vino inebriante che vogliamo bere fino all’ultima goccia e, quindi viviamo nella frenesia di iniziative, di cose da realizzare, di esperienze, per consumare la vita fino in fondo. E qui nasce la nostra infelicità e qui nasce la nostra depressione e qui nasce il nostro fallimento. Invece, il chicco di grano si consuma per produrre vita. Don Franco si è consumato lentamente per offrire vita alle persone che il Signore ha messo sul suo cammino. Allora, questo è l’orientamento per noi: consumarci per la vita, non consumare la vita. Questo spostamento di orientamento è importante, se non vogliamo camminare velocemente verso il fallimento. E alla luce di questo, quale potrebbe essere il profilo dell’uomo, del cristiano, del presbitero don Franco? Mi sembra che il profilo dell’uomo, del cristiano, del prete don Franco sia caratterizzato in quei versetti della lettera ai Filippesi di San Paolo: “Siate sempre lieti nel Signore. Ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino.” (Fil. 4,4-5). Il tratto caratteristico della personalità di don Franco, che ho colto e apprezzato in questi due anni,  era l’amabilità. Aveva il volto dell’amabilità; un’amabilità che diceva cura, innanzi tutto delle persone. Mentre leggevo i cenni biografici di don Franco, quando ho detto che è stato cappellano dell’ospedale, Sua Eccellenza Mons. Zerrillo che condivide con noi questa celebrazione,  ha detto: “Soprattutto”. Sì, soprattutto, perché la sua amabilità aveva preso il volto della cura e sicuramente lui curava nello spirito ma portava nel cuore anche l’attenzione alla cura del corpo, che il fratello e la sorella medici gli avevano trasmesso. Una delle poche confidenze che don Franco mi ha fatto riguardava proprio questo tratto di cura che aveva imparato dalla sorella, dalla dottoressa. Quando, il primo anno che ero  qui a Tricarico, eravamo a San Giovanni Rotondo per gli esercizi annuali dei laici e don Franco era con noi,  purtroppo un attimo di disattenzione e don Franco cadde e si ruppe la testa;  noi eravamo nel panico, lui sereno, come al solito. Lo soccorremmo immediatamente ma chiamammo anche i soccorsi e fu  portato in barella al Pronto Soccorso. Don Franco andò via  salutando tutti quelli che stavamo là e mi confidò: “Quante volte mia sorella mi ha salvato. Io sono un miracolato e i miracoli li ho tenuti per mano di mia sorella, la dottoressa”. Aveva imparato la sensibilità verso l’intera persona.  Ma l’amabilità di don Franco si esprimeva anche nell’accoglienza: il Santuario di Fonti non era soltanto un luogo di culto e ministero per lui  ma era una casa, una casa comune, una casa accogliente, una casa dove incontrarsi sotto lo sguardo della Madre e  potersi  così alimentare attraverso   quel vangelo che si trasmette non con lezioni ma attraverso relazioni,  attraverso il contagio dell’amicizia. L’ultimo tratto dell’amabilità di don Franco era la gioia. Gioia che si esprimeva non solo attraverso i suoi giochi di prestigio ma soprattutto attraverso la voglia di fare i ritratti dei volti delle persone che incontrava. E quei ritratti dicevano la voglia di guardare i volti, di guardare le persone, di non lasciare che quei volti passassero senza lasciare il segno nella sua persona. L’amabilità di don Franco diventa cifra sintetica dell’intera esperienza esistenziale e cristiana di don Franco: l’amabilità come cura, l’amabilità come accoglienza e l’amabilità come gioia. Per cui, penso veramente che don Franco, in questo passaggio, ha fatto l’esperienza della luce. Permettetemi soltanto di leggere un breve passaggio di quello che viene considerato il testamento spirituale del santo papa Paolo VI, il suo pensiero alla morte. In un passaggio, Paolo VI scrive: “Camminate finché avete la luce. (Gv. 12,35). Ecco: mi piacerebbe, terminando, d’essere nella luce. Di solito la fine della vita temporale, se non è oscurata da infermità, ha una sua fosca chiarezza: quella delle memorie, così belle, così attraenti, così nostalgiche, e così chiare ormai per denunciare il loro passato irrecuperabile e per irridere al loro disperato richiamo. Vi è la luce che svela la delusione d’una vita fondata su beni effimeri e su speranze fallaci. Vi è quella di oscuri e ormai inefficaci rimorsi. Vi è quella della saggezza che finalmente intravede la vanità delle cose e il valore delle virtù che dovevano caratterizzare il corso della vita: vanitas vanitatum. Vanità della vanità. Quanto a me vorrei avere finalmente una nozione riassuntiva e sapiente sul mondo e sulla vita, tutto era grazia; e com’era bello il panorama attraverso il quale si è passati; troppo bello, tanto che ci si è lasciati attrarre e incantare, mentre doveva apparire segno e invito. Ma, in ogni modo, sembra che il congedo debba esprimersi in un grande e semplice allo di riconoscenza, anzi di gratitudine: questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente; un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio, e in gloria: la vita, la vita dell’uomo!” Anche noi, questo pomeriggio, mentre sorgono le luci della terza domenica di Quaresima, vogliamo vivere un profondo e immenso atto di riconoscenza nei confronti di don Franco, della sua vita, della sua opera di sacerdote, per il segno che ha lasciato nel cuore delle persone che ha incontrato. Rendiamo grazie al Signore per la vita, il ministero, la testimonianza di don Franco. Il nostro presbiterio terreno diventa più povero ma si arricchisce il nostro luminoso presbiterio celeste e, nella comunione dei Santi, continuiamo a camminare insieme.

Don Franco,

   il Buon Pastore sulle sue spalle

   ti conduca nel seno del Padre,

  e noi ti diciamo: A Dio…Ci vediamo in Dio!